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La società additiva, tra business e dipendenza: la parola al dr. Gatti

La società additiva, tra business e dipendenza: la parola al dr. Gatti

La società additiva, tra business e dipendenza

L’intervista con Riccardo Gatti, medico psichiatra e responsabile del Dipartimento Dipendenze Patologiche della ASL di Milano, su uno dei mercati, legale o illegale, più pericolosi: le dipendenza. «Il più grave problema è la sottovalutazione, dolosa, del problema: parliamo esclusivamente di patologia. Ma la grande platea cui i grandi player sono interessati e che genera i profitti è il mare magnum dei consumatori a rischio. Noi»

«Nel mondo, ogni anno, si stimano circa 250 mila decessi direttamente causati da droghe (ma stiamo probabilmente parlando solo di overdose accertate), più di tre milioni per alcol (cui bisognerebbe associare anche gli incidenti stradali e sul lavoro alcol-correlati), sei milioni per il tabacco (le stime variano a seconda delle fonti ma, in generale, sebbene approssimati questi sono i numeri). Poi ci sono i decessi per l’abuso o l’uso improprio di farmaci (per esempio i farmaci oppiacei) i cui dati sono più lacunosi, probabilmente per la carenza di accertamenti tossicologici e di sistemi di osservazione. Solo negli USA dal 1999 al 2015, sono morte più di 183,000 persone per overdose correlate a farmaci oppiacei, ma anche i decessi per overdose, correlati all’uso di benzodiazepine, stanno salendo e sono, ormai, un terzo di tutti quelli causati da overdose da farmaci».

 

Così scrive Riccardo Gatti, medico psichiatra e responsabile del Dipartimento Dipendenze Patologiche della ASL città di Milano nell’ultimo post del suo blog Droga.net. Si sta parlando di un evento in grado di uccidere più di novanta milioni di persone nell’ultimo decennio. Eppure non viene granché considerato. «È come se in meno di dieci anni una nazione molto più grande dell’Italia, con tutti i suoi abitanti, sparisse dalla faccia della terra», sottolinea Gatti. Ma come nasce e si alimenta un simile fenomeno? E perché non si riesce non solo a debellarlo ma neanche a intercettarlo? Abbiamo intervistato il professore che descrive la manifestazione come “la società additiva”.

La società dei consumi di pasoliniana memoria è diventata società “additiva”. Ci spiega cosa significa?

Il consumo, che anima il commercio, è figlio di un bisogno e, per questo, i mercati inducono bisogni per indurre consumi. Questo avviene per ogni cosa ed anche ad ogni costo. Per questo siamo una società “additiva” perché sui comportamenti additivi si basa la “cultura” della fidelizzazione al consumo. Si sfrutta una sorta di naturale tendenza alla dipendenza, che abbiamo e la nostra innata voglia di essere diversi da ciò che siamo, di sperimentare nuovi percorsi e di pensare che l’alterazione sia una vera forma di liberazione dalle nostre ansie. E c’è anche da notare un'altra questione

Cioè?
Che non siamo più nella società pasoliniana però. Siamo una società molto più semplice in cui le cose che costituiscono devianza sono molto meno delineate. Non sempre chi usa sostanze oggi è un deviante. In più abbiamo i nativi digitali, che si creane una cultura fatta per sentito dire. Quindi una società tutti sembrano estremamente consapevoli ed evoluti ma in realtà non lo sono.

C’è in sostanza una correlazione strettissima tra il nostro sistema consumistico e il crescere dilagante dei mercati legali e illegali di sostanze stupefacenti?
Ci sono mercati alla ricerca di business. Non è importante che siano legali o illegali. Al cuore di questa ricerca c’è, come dicevamo, la fidelizzazione del cliente. Non possiamo certamente paragonare le mafie, ai produttori di alcolici, alle case farmaceutiche, ai produttori di sigarette, ai gestori del gioco d’azzardo ecc. mettendo tutti sullo stesso piano. È ovvio che si debbano fare dei distinguo. Ma è abbastanza chiaro che, anche da altri settori commerciali, viene una spinta forte a consumi che, magari, sono scelti consapevolmente, ma con scarsa capacità critica. Per gran parte del commercio, prima di tutto, viene il fatturato. Non so dire se, in assoluto, sia un bene o un male, ma per quanto riguarda prodotti che hanno a che fare con comportamenti additivi è senz’altro un problema. Così, se direttamente nessuno ha interesse a provocare danni ai clienti, nemmeno i trafficanti di droga e gli spacciatori, molti investono sui comportamenti a rischio e ne traggono profitto. E qui entra in gioco l’altro grande problema

Quale?
La sottovalutazione, dolosa, del problema.

In cosa consiste e perché è dolosa?
Consiste nel parlare esclusivamente di patologia. La soglia che separa le situazioni a rischio dalla patologia conclamata è molto sottile. E poiché le persone a rischio sono proprio quelle che producono maggior guadagno comprando alcolici, droghe, gioco, tabacco ecc. in quantità, c’è chi investe non poco per generare situazioni di consumo additive. Queste occasioni, infatti, aumentano, ma l’allarme sociale è mantenuto basso dalla convinzione indotta che a rischio sono “altri”, più fragili, più ignoranti o più deboli e che basti comportarsi “responsabilmente” per risolvere ogni problema. I mercati hanno così spazio culturale per espandersi, mentre l’amplificazione del concetto di “fragilità” individuale collegato alle dipendenze patologiche, fa si che i sistemi sanitari e sociali vengono attrezzati soprattutto per la gestione della cronicità che ne deriva e che pare qualcosa di “scientificamente” inevitabile. Apparentemente tutto risulta “politicamente corretto”. Per capirci è come se, invece di prevenire il cancro o di curarlo precocemente, ci organizzassimo soprattutto per fornire cure palliative ai pazienti terminali

 

(...omissis...)

copia integrale del testo si può trovare al seguente link:

http://www.vita.it/it/article/2017/02/06/la-societa-additiva-tra-business-e-dipendenza/142357/

(Articolo pubblicato dal CUFRAD sul sito www.alcolnews.it)