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Gioco d'azzardo: intervista a Mauro Croce

Gioco d'azzardo: intervista a Mauro Croce

GIOCO D'AZZARDO: INTERVISTA A MAURO CROCE

Le cifre parlano chiaro. Le ha rese note “The Economist” in un articolo dello scorso ottobre: in Italia si stampa un quinto dei gratta e vinci dell'intero pianeta e, sempre a livello globale, deteniamo un terzo dei terminali di gioco. Cifre da capogiro che assegnano al nostro Paese il primato mondiale nell' “industria” del gioco d'azzardo e che spiegano le ragioni di quella che ormai viene considerata una vera e propria epidemia. A questo tema è dedicato il corso di formazione per operatori del settore “Gioco d'azzardo patologico. Modelli di prevenzione e intervento”, che il 26 e il 27 febbraio sarà tenuto presso il Centro Studi Erickson di Trento da Mauro Croce, psicologo, psicoterapeuta e criminologo. Lo abbiamo intervistato.


La ludopatia è paragonabile alle altre dipendenze, nonostante non si assumano sostanze?

«Ludopatia è un termine gergale coniato in Italia che l'Accademia della Crusca mette in discussione e che non ha cittadinanza in ambito scientifico. Evidentemente si usa perché non si vuole parlare di “gioco d'azzardo”, così come invece viene definito in tutto il mondo.


Precisato questo, è allo stesso tempo straordinario dal punto di vista scientifico e inquietante da quello umano che senza una sostanza si producano in molti soggetti comportamenti, conseguenze e costi sociali del tutto simili a quelli delle tossicodipendenze. Si aumentano le dosi di una sostanza, così come si gioca sempre di più e sempre più denaro. Comune è anche l'idea di darsi un limite.


Questo è ciò che si dice ogni dipendente, senza però riuscirci. Altra similitudine è l’ evoluzione del quadro: si inizia per divertimento, spesso in compagnia, provando emozioni straordinarie, con la percezione di controllare la propria relazione col gioco. A questa fase, detta “vincente”, segue quella “perdente”: si inizia a giocare in maniera solitaria, dandosi dei limiti che puntualmente vengono superati, si gioca (e questo è il punto cruciale) raccontandosi di volersi rifare del denaro perso, trovando così una giustificazione per continuare. Le proprie relazioni vengono compromesse e si apre la terza fase, della disperazione: si gioca in maniera smodata. A questo punto per il giocatore sono tre le possibilità: smettere, chiedendo aiuto, la prigione o il suicidio».


C'è una differenza d'approccio fra i giochi online e quelli disponibili nei bar, nelle sale gioco?

«Se prima ci si divertiva a briscola insieme nel bar del paese, ora gli individui giocano da soli contro una macchinetta, contro un algoritmo. Il gioco da sociale è diventato asociale; da lento, velocissimo; da rituale, momento in cui una comunità si riuniva per stare insieme, è consumato in ogni momento e ovunque. L’ online moltiplica queste possibilità: è un mercato sterminato di proposte difficilmente controllabile, che ha cancellato la divisione fra momenti del lavoro e dello svago».


Quando ossessione e compulsione prendono il posto del semplice piacere per il gioco?

«Per definizione il gioco è un momento di evasione che non deve produrre guadagno o perdita. È una valvola di sfogo in cui ci si mette alla prova su un terreno simbolico. Per esempio, un conto è giocare alla guerra a Risiko e un altro è fare la guerra. Il problema nasce quando vi entrano denaro, possibilità di guadagno, sogno di risolvere i problemi della propria vita con una vincita fortunata. È a questo punto che il gioco diventa compulsione, diventando più simile al lavoro».


Qual è il profilo del giocatore compulsivo?

«Contrariamente allo stereotipo del giocatore d’ azzardo, un ricco che ha tutto, auto, belle donne, e beve champagne, in realtà chi nel gioco trova dei rischi forti appartiene spesso a strati sociali poveri economicamente, culturalmente e relazionalmente. Le emergenze oggi riguardano soprattutto le donne, gli anziani, gli immigrati e i giovani».


Quando un giocatore patologico si fa curare, lo fa spontaneamente o perché viene sollecitato da familiari, da amici?

«Come in tutte le situazioni di dipendenza, il giocatore patologico pensa di farcela da solo, minimizzando il problema con l’ idea di attraversare soltanto un momento sfortunato transitorio, anche perché non c’ è il legame con una sostanza, non si hanno dolori a livello fisico che spingono a chiedere aiuto.


C’ è però il denaro, con i rischi che questo comporta: usura, perdita del lavoro e, talora, anche episodi delinquenziali, come le truffe. Molti riescono a chiedere aiuto, per esempio, ai Giocatori Anonimi. Spesso i familiari cercano di convincere la persona ad accettare il momento di crisi, invitandola a non sentirsi onnipotente e nemmeno a vergognarsi. Riconoscere la propria debolezza, infatti, paradossalmente significa cominciare a vincere».


(...omissis...)


copia integrale del testo si può trovare al seguente link:
http://trentinocorrierealpi.gelocal.it/tempo-libero/2016/02/24/news/gioco-d-azzardo-intervista-a-mauro-croce-1.13017896


(Articolo pubblicato dal CUFRAD sul sito www.alcolnews.it)