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Dipendenze: come si diventa incapaci di smettere

Dipendenze: come si diventa incapaci di smettere

Come si diventa incapaci di smettere
(è colpa della «molecola del piacere»)

Il ruolo della dopamina è decisivo. Il neurotrasmettitore legato al cibo e al sesso può infatti essere stimolato anche da sostanze nocive. L’adolescenza, il periodo più critico

Provare una volta, per vedere l’effetto che fa. Una seconda, perché la voglia di sentire ancora quella «botta» di piacere è tanta. E poi una terza, perché tanto «smetto quando voglio». Ma non è così e pian piano parecchi, quasi senza accorgersene, scivolano nella dipendenza dalle sostanze più disparate ma anche dai comportamenti che in un modo o nell’altro provocano piacere, dal sesso al cibo, dal gioco d’azzardo ai social. Le sostanze d’abuso sono potentissime nel legare a sé chi le prova e spesso basta una volta sola per caderci: un recente studio su Neuropsychopharmacology ha osservato che con la maggioranza delle droghe non serve l’abitudine all’assunzione per arrivare alla dipendenza. Siamo, insomma, molto vulnerabili di fronte a cocaina, alcol e simili e secondo quanto è emerso durante l’ultimo congresso della Società Italiana di Farmacologia (Sif) essere più o meno «fragili» dipende sia dai geni, sia dall’ambiente.

Gli effetti sul cervello

«Gli studi sui gemelli adottati da famiglie diverse suggeriscono che circa la metà del rischio di dipendenza possa derivare da geni che la favoriscono», spiega Marco Pistis, membro del direttivo Sif e docente di farmacologia dell’Università di Cagliari. «Il resto dipende dall’ambiente e dalle scelte di vita, che regolano e rimodellano l’espressione dei geni modificandone la funzionalità attraverso meccanismi molecolari: per esempio, marcando il Dna e facendolo “srotolare” in punti specifici così da poter produrre maggiori quantità di proteine che si associano all’assuefazione alle sostanze. I periodi in cui l’influenza dell’ambiente sul rischio di dipendenza è più elevata sono la vita fetale e l’adolescenza, momenti di sviluppo tumultuoso del cervello: l’esposizione a sostanze d’abuso della mamma durante la gravidanza o il loro consumo da ragazzini determinano alterazioni nella funzionalità genetica e quindi nello sviluppo cerebrale che aumentano il pericolo successivo di abuso di sostanze e di patologie mentali». «La maggior parte delle persone con una dipendenza da sostanze, dalle sigarette alle droghe, ha iniziato in adolescenza», conferma Leonardo Bontempi, ricercatore del Laboratorio di Neuromodulazione e circuiti corticali e sottocorticali dell’Istituto Italiano di Tecnologia di Genova. «Lo sviluppo delle aree frontali deputate al controllo del comportamento si completa intorno a 25 anni: se un ragazzino viene in contatto con una sostanza capace di indurre dipendenza, questa ha gioco facile perché l’impulsività è maggiore ed è più reattivo anche il sistema della dopamina, il neurotrasmettitore chiave per la gratificazione e l’apprendimento».

La molecola «motivatrice»

I meccanismi con cui si instaura l’incapacità di fare a meno di qualcosa cambiano un po’ a seconda della sostanza, ma hanno in comune proprio l’incremento del rilascio di dopamina nel cervello; è conosciuta come la «molecola del piacere» ma non è solo per questo che porta alla dipendenza, anzi. Come precisa Bontempi «La dopamina rinforza la memoria della sensazione piacevole e ci spinge così a comportarci in modo da ottenerla ancora, è insomma una molecola “motivatrice” che viene rilasciata da tutte le sostanze d’abuso non tanto al momento del consumo, ma alla sola presenza di esse, quindi in vista della ricompensa. Non a caso la dopamina aumenta con il sesso e il cibo: il sistema si è evoluto per creare un’associazione positiva con elementi fondamentali per la sopravvivenza, in modo che li cercassimo attivamente. Purtroppo le droghe sono capaci di incrementare parecchio la dopamina nel cervello, motivando a volerne ancora a tal punto da mettere fuori uso le aree cerebrali frontali che valutano i rischi e inibiscono i comportamenti».

Diversa potenza

Alcune sostanze sono più potenti di altre, sia nell’aumentare il rilascio di dopamina (come la cocaina), sia nel provocare un piacere intenso, che invece dipende dalla capacità di premere altri tasti nel cervello, come i recettori per gli oppiacei. Il risultato però è spesso la dipendenza, che si può diagnosticare in maniera relativamente semplice tenendo conto della presenza di dieci criteri a seconda della sostanza coinvolta esistono terapie per uscirne, spesso con molecole sostitutive. In pratica si stimolano le stesse vie attivate dalla sostanza d’abuso ma con qualcosa che sia meno dannoso: il metadone nel caso dell’eroina, la vareniclina se ci si deve disassuefare dalla nicotina delle sigarette e così via. Non si può invece agire sul sistema della dopamina, come precisa Bontempi, perché «bloccarla significherebbe portare alla mancanza di piacere e motivazione, alla depressione; attivarla sarebbe come dare altre sostanze d’abuso».

Riconoscere il problema

Il primo passo è comunque riconoscere il problema, poi «L’intervento oltre ai farmaci deve prevedere un sostegno psicologico e psicoterapeutico», puntualizza Guido Mannaioni, consigliere della Società Italiana di Tossicologia e direttore dell’Unità di Tossicologia Medica e Centro Antiveleni dell’ospedale universitario Careggi di Firenze. «Disintossicarsi è possibile e in un certo senso facile, la maggior parte di chi ha una minima volontà di uscirne e inizia un percorso ambulatoriale od ospedaliero ci riesce. Il vero problema è non ricaderci o non passare da una sostanza a un’altra, come purtroppo capita spesso. Anche per questo possono aiutare tecniche non farmacologiche come la Stimolazione Magnetica Transcranica (Tms), che è stata testata con successo inizialmente sulla dipendenza da cocaina e ora si sta provando su altre, come alcol o tabacco: riduce il craving, ovvero il desiderio incontenibile della sostanza, e perciò può essere d’aiuto. Ma non è una panacea e non spegne la voglia come se schiacciassimo un interruttore». «Purtroppo le dipendenze hanno un impatto enorme sul cervello e sul corpo, anche se ora i meccanismi alla base sono più chiari non è semplice uscirne», ammette Bontempi.

Non è un «vizio»

Le sostanze che provocano assuefazione sono tantissime, non solo le droghe d’abuso come eroina, cocaina, amfetamine: alcol e sigarette inducono una dipendenza forte, ma pure farmaci come le benzodiazepine, usate per il loro effetto ansiolitico o per dormire. «L’errore più grave, però, è credere che la dipendenza sia un vizio, una cattiva abitudine, un problema da personalità deboli: è una malattia vera e propria, da curare una volta che si sia instaurata», precisa Pistis. «I pazienti vivono lo stigma e il pregiudizio, tanti non si rivolgono ai servizi territoriali per le tossicodipendenze per vergogna, perché credono di avere una colpa, ma non è così». «Il rischio di scivolare in un disturbo da abuso di sostanze dipende spesso dal contesto di vita», aggiunge Bontempi. «C’è chi è depresso e non provando più piacere con nulla trova nelle sostanze una scorciatoia per sentire qualcosa, chi subisce forti pressioni sociali per la prestazione sul lavoro e cerca di “tirarsi su” con la cocaina, l’adolescente timido che usa l’alcol per essere più spavaldo: è fondamentale mettere in guardia la popolazione sui rischi che si corrono provando certe sostanze, ma quando una persona è caduta nella trappola della dipendenza e non riesce più a controllarsi non può più scegliere. È un malato, e come tale va aiutato a guarire da una patologia per giunta assai complicata».

I rischi della cannabis

È la sostanza d’abuso più usata al mondo: secondo i dati 2020 dell’Ufficio sulle Droghe delle Nazioni Unite, circa 192 milioni di persone lo scorso anno hanno assunto cannabis a scopo ludico. È diffusissima fra i giovani: in Europa un ragazzo fra i 15 e i 24 anni su cinque l’ha usata almeno una volta nell’anno precedente, uno su dieci nell’ultimo mese. Un problema serio, perché non provoca la morte per overdose e così viene percepita a torto come una droga «leggera»: parecchi pensano che non dia dipendenza, per esempio, ma come hanno spiegato Tiziana Rubino ,dell’Università dell’Insubria, e Miriam Melis , dell’Università di Cagliari, durante l’ultimo congresso della Società Italiana di Farmacologia «Chi la usa una sola volta o due ha un rischio di dipendenza del 9 per cento, se il consumo è frequente e inizia in adolescenza la probabilità sale al 17 per cento». Meno quindi di altre sostanze, ma il pericolo è alto perché c’è ormai la certezza che l’impiego in adolescenza, anche nel caso in cui non porti a una vera dipendenza, si associ a un pericolo elevato di sviluppare poi deficit cognitivi, depressione, psicosi.

(...omissis...)
 

(Articolo pubblicato dal CUFRAD sul sito www.cufrad.it)