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Nuoce alla salute, anche alcol e caffè dovrebbero avere etichette come le sigarette?

Nuoce alla salute, anche alcol e caffè dovrebbero avere etichette come le sigarette?

Nuoce alla salute, anche alcol e caffè dovrebbero avere etichette come le sigarette?

 

Anche le bevande alcoliche dovrebbero, come tutti gli altri prodotti per l’alimentazione, riportare in etichetta le informazioni nutrizionali. Ma c’è chi vorrebbe che i messaggi riportati sulle bottiglie dicessero di più, con etichette simili a quelle delle sigarette

L’alcol come le sigarette?
Solo pochi giorni fa la Royal Society for Public Health (Rsph), una charity britannica per educazione alla salute, proponeva un nuovo metodo per l’etichettatura delle bevande alcoliche, nell’ottica, spiegava, di affrontare il vuoto relativo alla consapevolezza sui rischi per la salute legati al consumo di alcol. Meno di una persona su sei conosce i livelli di consumi considerati a basso rischio, meno una su dieci è cosciente del legame tra consumo di alcol e tumori, e otto su dieci non sanno stimare il contenuto calorico di un bicchiere di vino. Se queste sono le premesse, perché, si chiede Rsph, non impegnarsi attivamente per far crescere la consapevolezza degli effetti dell’alcol sulla salute?

Le proposte dell’organizzazione sono chiare: mostrare chiaramente in posizione frontale gli avvertimenti sui pericoli dell’alcol sulla guida, le calorie per porzione, nonché le linee guida per un consumo a basso rischio. In quest’ultimo caso l’idea è di rendere esplicite le dose massime consentite (14 unità alcoliche a settimana per il Regno Unito, ci torneremo dopo) e di adottare, potenzialmente, anche un sistema di etichettatura simile a quello delle sigarette, che mostri chiaramente il legame con condizioni come cancro al seno e all’intestino. Cambiamenti sul sistema di etichettatura sarebbe auspicabili anche secondo alcuni dati presenti in letteratura (anche qui). Parentesi. Le bevande alcoliche, così come il fumo, vengono infatti classificate dallo Iarc, l’agenzia internazionale per la ricerca sul cancro, nella stessa classe del fumo da tabacco (classe 1, cancerogeni per gli esseri umani). Ma l’alcol è correlato a oltre 200 patologie e condizioni, nonché a rischi a breve termine, dal pericolo alla guida, alla riduzione delle capacità di valutazione del rischio, alla perdita del controllo. Rischi per sé e per gli altri.

Ma se il Regno Unito, specie dopo la Brexit, sembra un mondo a sé stante per abitudini e legislazione, anche nel resto d’Europa il tema dell’etichettatura delle bevande alcoliche è più che mai di attualità. La questione risale almeno al 2011, quando le istituzioni europee emanarono una regolamentazione (N. 1169/2011) secondo cui tutti i prodotti alimentari, cibi come bevande, dovessero riportare in etichetta le informazioni nutrizionali e gli ingredienti. Con l’eccezione delle bevande alcoliche, dopo accesi dibattiti, ricordano da EuroCare, l’European Alchol Policy. Ciò detto alcuni produttori su base volontaria hanno provveduto a riportare lo stesso queste informazioni, mentre alcuni paesi hanno scelto o mantenuto strade proprie in materia di etichettatura, come riportato dalla Commissione europea (e anche da Il Fatto alimentare che guarda anche oltre l’Europa), la quale lo scorso marzo invitava le industrie del settore a presentare entro un anno delle norme di autoregolazione (qui il report adottato).

Alla Commissione poi il compito di valutare se la proposta di autoregolamentazione potrà essere soddisfacente o meno. La questione appare però, almeno a una prima analisi, marginalmente diversa dalle richieste avanzata dalla Rsph nel Regno Unito, riguardando la presentazione in etichetta degli ingredienti e delle informazioni nutrizionali, per rispondere alle attese dei consumatori. “Perché le bevande alcoliche dovrebbero fare eccezione?”, si chiede infatti Emanuele Scafato, direttore dell’Osservatorio nazionale sull’Alcol dell’Istituto superiore di sanità, parte della Joint Action on Reducing Alcohol Related Harm (Rarha).

Cosa scrivere?
Scafato, insieme ad alcuni colleghi, ha fatto parte di una commissione di esperti che ha stilato una sorta di informazioni minime che dovrebbero essere contenute nel sistema di etichettatura proposto dalle aziende. Possibilmente un sistema in chiaro, spiega a Wired.it, che non rimandi all’utilizzo di Qr code, ma che mostri palesemente le informazioni che il consumatore ha diritto di conoscere, per favorire l’accesso a scelte informate: “Le organizzazioni di advocacy suggeriscono che nelle informazioni riportate in etichetta debbano essere presenti almeno la quantità di calorie per porzione, il contenuto di alcol in grammi e quindi le unità alcoliche presenti [il contenuto di alcol pure per bicchieri (di dimensioni variabili per le diverse bevande), variabili da paese a paese, in Italia pari a 12 g, nda] , ed eventualmente anche consigli, avvertimenti per i consumatori, i cosiddetti warning messages”, spiega Scafato.

Informare e non terrorizzare 
In etichetta possono finire diverse cose, in chiaro e senza che siano scritte necessariamente. “Per esempio si potrebbero includere i pittogrammi del non bere in gravidanza e sotto il limite legale dei diversi paese, e messaggi di avvertimento come già fanno in alcuni paesi, come gli Usa e l’Australia, e alcuni produttori, più comunemente nel mondo della birra – riprende Scafato – che servirebbero non solo a fare scelte informate ai consumatori ma anche a qualificare la responsabilità sociale delle aziende”. Includere messaggi più terrorizzanti, come “nuoce gravemente la salute” o “l’alcol fa venire il cancro” potrebbe essere una scelta troppo aspecifica e priva di senso, secondo Scafato: “Più opportuno è piuttosto richiamare ai limiti che l’organismo riesce a smaltire, verificando informazioni più specifiche da dare ai consumatori”. Che nel dettaglio sono di un’unità alcolica (12 grammi in Italia) per le donne, due per gli uomini e zero al giorno.

L’idea, spiega l’esperto è quella che le persone più che essere terrorizzate vogliano essere orientate, magari con linee guida di basso rischio (che non significa assenza di rischio): “Lo scopo è quello di fornire evidenze senza che queste diventino prescrizioni: ovvio che se si vuole fare prevenzione non bere è la scelta migliore, ma ogni iniziativa che possa ridurre l’esposizione ai fattori di rischio è utile e la scelta sul rischio da correre o meno spetta sempre alle persone”, conclude il ricercatore, “Crediamo che informare il consumatore, favorendo la conoscenza delle informazioni che hanno il diritto di ricevere, possa orientare gli stili di vita verso comportamenti più sani”. Anche perché sull’efficacia dei messaggi impressionanti, come le immagini sui pacchetti di sigarette, esiste almeno qualche dubbio.

E il caffè?
Un nuovo sistema di etichettatura è stato proposto anche per il caffè. A richiederlo, in California, la Council for Education and Research on Toxics che ha fatto causa ad alcune catene di caffè perché manchevoli, a suo avviso, della trasparenza sui possibili rischi del consumo della bevanda, in particolare per il suo contenuto di acrilammide: una sostanza prodotta durante la tostatura del caffè (qui la classificazione dello Iarc è classe è 2A: probabilmente cancerogeni ma anche le bevande molto calde vengono incluse nella stessa lista), ma presente anche in altri alimenti, come le patatine fritte o i cereali per la colazione (per approfondire qui una valutazione del rischio dell’Efsa, l’autorità europea per la sicurezza alimentare).

(...omissis...)

copia integrale del testo si può trovare al seguente link: https://www.wired.it/lifestyle/salute/2018/02/14/etichette-alcol-caffe/

(Articolo pubblicato dal CUFRAD sul sito www.alcolnews.it)