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Tossicodipendenza e genitorialità: recupero delle capacità genitoriali e tutela dei minori

Tossicodipendenza e genitorialità: recupero delle capacità genitoriali e tutela dei minori

 

Tossicodipendenza e genitorialità: recupero delle capacità genitoriali e tutela dei minori

 

 

Il significato del termine genitorialità è, in questi ultimi anni, continuamente in evoluzione. Sempre maggiore diventa la sua complessità e sempre più ramificato il suo intrecciarsi con altri aspetti della ricerca clinica e psicologica.
Con il termine genitorialità si intende quell’insieme di comportamenti volti alla cura fisica e psicologica del bambino che prevedono un profondo investimento affettivo nella relazione con lui (Ghezzi & Vadilonga, 1996).
Le funzioni di base del genitore, dunque, sono due e consistono nel “prendersi cura” e nella “protezione”.


Il prendersi cura si riferisce al complesso processo di socializzazione, reso possibile, facilitato e promosso dall’insegnamento dei genitori.


La protezione dipende dalla possibilità di assicurare gli appropriati confini di sicurezza tra il bambino e l’ambiente esterno.
La genitorialità, secondo una prospettiva psicologica, è parte fondante della personalità di ogni individuo. È uno spazio psicodinamico che inizia a formarsi nell’infanzia quando a poco a poco vengono interiorizzati i comportamenti, i messaggi verbali e non verbali, le aspettative, i desideri, le fantasie dei propri genitori.
Si potrebbe parlare di genitorialità come di uno stadio evolutivo nei termini in cui lo definisce Erikson: “La forza acquistata a ciascuno stadio si rivela nell’esigenza di trascenderlo e di rischiare nel successivo quelli che nel precedente costituivano gli elementi più vulnerabili e preziosi” (Erikson, 1982).
Lo stadio da lui definito come “generatività” è l’aspetto evolutivo più importante poiché implica tutti quegli sviluppi che hanno fatto dell’uomo un essere che si “occupa di”.


Erikson distingue diverse forme di “care” che qualificano lo sviluppo personale: in adolescenza si tratta di una “preoccupazione di fare e di essere”; nel periodo della giovinezza si sviluppa “l’interesse per la relazione”. Nel caso della generatività il “prendersi cura” è rivolto a ciò a cui si è data la vita, cioè assumersi la responsabilità.


Obiettivo principale della transizione alla genitorialità è proprio quello di assumere una cura responsabile per assicurare costante protezione al figlio, la creazione di un contesto di crescita sicuro e un orientamento nel percorso di crescita (Scabini & Cigoli, 2000).
La genitorialità rappresenta il momento evolutivo più maturo della dinamica affettiva in cui convergono tutte le esperienze, le rappresentazioni, i ricordi, le convinzioni, i modelli comportamentali e relazionali, le fantasie, le angosce ed i desideri della propria storia affettiva. E come ogni compito evolutivo, come ogni stadio è una fase della propria crescita psicologica e relazionale contrassegnata da ambivalenze, difficoltà, contraddizioni, ricerche, crisi, integrazioni, frammenti.


Il termine genitorialità dunque non coinvolge solo l’essere genitori reali ma è uno spazio psicodinamico autonomo che fa parte dello sviluppo di ogni persona.


L’incapacità di svolgere in modo adeguato la funzione genitoriale non è quindi semplicemente la mancata capacità di rispondere in modo adatto ai bisogni dei figli, ma chiama in causa, in maniera più profonda delle dinamiche psicologiche legate all’identità personale, alla qualità delle relazioni che hanno segnato il proprio percorso di crescita  (Ghezzi & Vadilonga, 1996).

Per quanto riguarda i genitori tossicodipendenti la situazione più frequente è quella di un adulto maschio che convive con una donna, spesso non tossicodipendente: in questo caso la partner tende a gestire in proprio i figli e ad allontanarli dal padre.


Un aspetto particolare, infatti, consiste nella maggiore preoccupazione che si riscontra nel caso in cui sia la madre tossicodipendente, ritenuta ancora più incapace di occuparsi in modo adeguato dei figli, in quanto spesso dispone di minore supporto familiare e di coppia rispetto ai tossicodipendenti padri (Fava Vizziello & Stocco, 1999).

Nel nostro paese le dipendenze patologiche da sostanze costituiscono un fenomeno preoccupante nella popolazione femminile.


L’incremento, verificatosi negli ultimi anni, del numero di donne che abusano di sostanze, ha comportato la nascita di una problematica particolarmente delicata quale quella della maternità in condizione di rischio, aggravata poi in certe occasioni dall’emergenza del fenomeno Aids (Prestileo, Rubino, Guarneri & Catalano, 2007).


Il problema ha suscitato in molti paesi notevole interesse, in Italia, invece, risulta ancora relativamente scarsa la riflessione su questo tema, anche per la mancanza di dati attendibili e confrontabili con il fenomeno della tossicodipendenza e dell’alcolismo nel suo complesso (Fava Vizziello & Stocco, 1999).


In Italia le donne rappresentano circa il 14% della popolazione di tossicodipendenti e circa un terzo ha figli minori; esistono naturalmente situazioni molto eterogenee tra regione e regione e, all’interno delle stesse, il fenomeno riveste caratteristiche diversificate.


La condizione di dipendenza nelle donne ha spesso un effetto più devastante che nell’uomo, per la contemporanea presenza di problematiche connesse alla prostituzione, alla violenza di rapporti e situazioni.
Lo scenario diventa ancora più complesso in presenza di eventi collegati alla maternità nel suo complesso, perché la dipendenza può produrre un alterazione della competenza genitoriale (Ferrigno, 2007).


È accertato, infatti, quanto sia importante la relazione madre-bambino rispetto allo sviluppo del bambino stesso. Il bambino deve diventare per i Servizi un soggetto privilegiato di interventi di sostegno, che ne permettano lo sviluppo armonico, affinché non debba patire in età adulta, problemi che gli derivino da un rapporto disfunzionale con la madre.


Anche dove c’è una famiglia di origine che si prenda cura della diade madre-bambino, aumenta la conflittualità dei rapporti, poiché comunque ci si trova in una situazione potenzialmente ansiogena per l’intero nucleo familiare.


Ogni operatore che si renda conto dell’importanza della gestione della maternità e del percorso di crescita dei bambini, ha come obiettivo prioritario quello di aiutare queste donne ad essere madri.

Quanto più il Servizio fornisce all’operatore gli strumenti per relazionarsi alle pazienti in modo da valorizzare le loro capacità di essere madri, tanto più loro riusciranno ad esserlo: dipende dall’operatore, dalla relazione che si instaura con l’utente, dalla fiducia che reciprocamente hanno l’uno dell’altro nelle loro capacità, e dalla volontà di tirarle fuori e amplificarle, aumentarle e renderle consapevoli (Cirillo & Di Blasio,1999).


Nella nostra cultura, quando si prende in carico una donna tossicodipendente in gravidanza, si può assistere alla messa in atto di due atteggiamenti contrapposti, il primo è quello di pensare la gravidanza come occasione per “redimersi”, perché la maternità mette in atto vissuti importanti, significativi che poi  possono aiutare ad allontanarsi da questo circuito, oppure la gravidanza può diventare, per l’incapacità di gestire regole e nuovi rapporti e relazioni, il definitivo asservimento alla tossicodipendenza stessa, quindi, un fallimento totale. (Cirillo, 1999).


A parte il contenimento della tossicomania dal punto di vista farmacologico, servono tutta una serie di interventi psicoterapeutici, che aumentino la fiducia nella possibilità di potercela fare e la tolleranza alle frustrazioni.


Bisogna anche puntare, ove sia possibile, costruendo una rete naturale di risorse intorno alla donna, a riparare quello che c’è già, ampliando e, ove possibile, costruendo una rete ancora più ampia  e renderla consapevole del ruolo materno.
Si deve aiutare la donna ad acquisire questo ruolo genitoriale che non sempre è chiaro; spesso è proprio la nascita del bambino a mettere in crisi la madre, portandola alla convinzione di non essere capace di assolvere tale ruolo.
Nelle donne è stata riscontrata una maggiore comorbilità tra dipendenza e problemi psichici, in particolare la depressione nelle sue forme più o meno gravi.
Spesso la depressione, che aumenta il potere invalidante della situazione di tossicomania, si viene a determinare per l’atteggiamento di maggiore condanna, da parte sia delle società che della famiglia, che la donna vive quando si trova in questo tipo di condizione.


I ruoli che storicamente e culturalmente vengono riconosciuti alla donna sono quelli che riguardano la relazione; sia in ambito professionale che familiare, essa viene riconosciuta come allevatrice, educatrice, come colei che si prende cura degli altri, per cui una patologia che ne alteri la relazione, la mette in condizione di disagio e di incapacità.
Ci aspettiamo che la donna sia un punto di riferimento, più sano del maschio; quando si esce fuori da queste immagini stereotipiche e condivise la sua posizione viene percepita come più compromessa e ciò genera una emarginazione ancora maggiore (Malagoli Togliatti & Mazzoni, 1993).
Il più delle volte, gli utenti uomini hanno delle compagne non tossicodipendenti; quasi sempre, invece, le donne tossicodipendenti hanno partner a loro volta dipendente.


Ciò non fa che peggiorare la situazione, perché se è vero che il ruolo paterno nella gestione di un figlio è importante, è indubbio che all’interno della coppia in cui solo l’uomo è tossicodipendente, spesso la madre “sana” e “forte” si fa carico di accudire i figli e di svolgere un ruolo positivo (Malagoli Togliatti & Mazzoni, 1993).
Nel caso in cui entrambi i genitori siano tossicodipendenti, frequentemente la donna vive nell’ombra di un uomo che la gestisce, e da cui lei si fa gestire in modo per lo più inconsapevole, ingenuo, non essendo capace di dire di no, di farsi promotrice del cambiamento.
Diviene evidente quanto, in un contesto così colmo di disagio, la maternità venga vissuta in modo complesso e difficile.


È perciò necessario sviluppare modelli di trattamento che tengano conto delle specificità dalla popolazione femminile ed interventi mirati al contenimento ed al sostegno della genitorialità.

Genitorialità e tutela del minore, richiamano a due principi  fondamentali per i servizi: il diritto del minore ad essere educato nell’ambito della propria famiglia e la preminenza dell’interesse del minore in tutte le decisioni di competenza delle istituzioni pubbliche e private.
Il diritto alla famiglia, e nel contempo il primato dell’interesse del minore, comporta, per le politiche del settore, la necessità di attivare interventi di sostegno alla famiglia  e quindi anche alla competenza genitoriale.


L’attenzione al minore, in quanto oggetto di pubblica tutela, ha storia breve.
La Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia è stata approvata dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite il 20 novembre 1989 a New York in coincidenza con l’anniversario della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’uomo (1789) e la Dichiarazione dei Diritti del Bambino (1959)
La tutela del minore si basa sul riconoscimento dei diritti che sono garantiti dalla legge e che si fondano sulla considerazione di ogni bambino e ragazzo come individuo e come figlio, distinto dal nucleo familiare ma contemporaneamente inscindibilmente legato ad esso, con un credito di affezione, tutela ed educazione (Ghezzi & Vadilonga,  1996).
Il termine “tutela del minore” nel passato ha avuto un significato di protezione e di difesa del bambino ritenuto debole ed incapace di provvedere a sé stesso, ma anche di valutare in modo adeguato la realtà che lo circonda.
Un bambino per crescere ha bisogno di sentirsi al sicuro, di essere aiutato a  sviluppare al massimo le sue attitudini e potenzialità. Ancora oggi, però, i bambini vengono vissuti come passivi, incapaci di autogestione e di valutazione obiettiva della situazione in cui si trovano.
La tutela del minore assume significato diverso se si considera questo come persona con capacità di comprensione e di valutazione di ciò che lo circonda.
Gli interventi in quest’ambito devono conformarsi alla necessità non solo di fare in modo che ai bambini vengano forniti cure e valori, ma anche che vengano garantiti loro il rispetto di un’identità nascente e l’aiuto a realizzare i propri interessi ed aspirazioni, in un quadro di progressiva autonomia ed autogestione, pur partendo da condizioni di degrado e svantaggio.
Il compito dei servizi pubblici è, infatti, un processo di presa in carico degli interessi complessivi del minore, qualora questi siano pregiudicati e danneggiati (Moro, 1989; Bertotti, 1990); non bisogna limitarsi, infatti, alla mera protezione del minore da un pericolo imminente, è necessario, invece, porsi nell’ottica di una progettualità per il suo futuro.
Il contesto della tutela è quello in cui poter offrire anche una “cura psicologica” attraverso cui poter ricostruire il proprio mondo interno e  rileggere il proprio contesto familiare, quello stesso contesto che viene valutato in una possibilità di rivalorizzazione.


La famiglia del minore deve essere sempre presa in considerazione in un’ottica di supporto, prima che di controllo, di prevenzione, prima che di sanzione.
Spesso gli interventi assistenziali erogati in passato, non acquisendo questa prospettiva, venivano strutturati su premesse semplificate, volte ad individuare una causa da eliminare, non tenendo in considerazione la molteplicità di aspetti su cui la situazione familiare si articolava. Uno soltanto era l’intervento messo in atto dai servizi a seguito del maltrattamento subito dal bambino, all’interno della sua famiglia: l’istituzionalizzazione.


La collocazione presso famiglie affidatarie era utilizzata soprattutto nel caso in cui i bambini erano molto piccoli; in tutti gli altri casi la sistemazione in istituto risultava essere l’intervento più frequente, per difendere il minore dalla sua famiglia.


Tale soluzione possedeva due vantaggi: da un lato assicurava al minore la sopravvivenza fisica, nutrendolo e accudendolo; dall’altro garantiva l’istruzione e l’educazione.
In questa prospettiva era, dunque, assolutamente assente l’attenzione ai bisogni affettivi del bambino, e la considerazione di un possibile recupero delle competenze genitoriali assenti o disfunzionali.


Per lungo tempo è stata questa la caratteristica degli interventi assistenziale, il fatto di essere assolutamente separati da quelli psicologici, utili a comprendere dove risiedono le cause della sofferenza; altra caratteristica costante di questo tipo di interventi è stata quella di considerare la famiglia come unità inscindibile, dove lo sviluppo e l’incuria riguardavano necessariamente tutti i membri della famiglia e se si guardava al singolo lo si faceva solo nell’ottica di  un’attribuzione di responsabilità.
Oggi molte cose sono cambiate, permettendo di mutare prospettiva e di guardare gli aspetti relazionali e di benessere degli individui, orientando gli interventi allo sviluppo dell’identità unica di ciascuno, e caratterizzandoli per un attenzione alla capacità genitoriale che viene vista come essenziale tra i principi di tutela del minore.
Da un punto di vista psicologico il termine tutela acquista un significato nuovo, non più di intervento immediato volto a rimuovere le cause oggettive del malessere, ma di valutazione della relazione genitore-bambino e di come questa abbia potuto influenzare lo sviluppo della personalità del minore stesso.
Il criterio che orienta la valutazione è quello per cui al bambino deve essere garantito un rapporto interpersonale solido, tutelare, accuditivo.
L’ottica valutativa deve avere lo scopo di portare il genitore a capire i bisogni del bambino.
Altra ragione del cambiamento di prospettiva nella messa in atto degli interventi di tutela, è stato il diffondersi tra gli operatori di un nuovo modo di concepire l’intervento, che li ha resi meno settoriali e più disponibili e capaci di integrazione, portando in questo modo a vantaggi significativi.
In primo luogo, la possibilità di contestualizzare, non isolando e settorializzando l’intervento, cioè la capacità di concepire la tutela del minore in un’ottica relazionale, non cadendo nell’errore di individuare un responsabile, ma sollecitando, invece, i genitori a riacquisire un controllo e una responsabilità sulla propria vita e su quella dei figli.


“Si tratta cioè di individuare come obiettivo la tutela del minore, consapevoli che per il minore non esiste luogo migliore per crescere di casa sua e della sua famiglia, non appena siano garantiti e ripristinati standard accettabili; consapevoli altresì che, essendo il nucleo familiare un sistema di vita coeso, benessere del minore e qualità della vita degli altri membri sono strettamente collegati”(Ghezzi  & Vadilonga, 1996).

 

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