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Il punto, legale e non, sul cyberbullismo, purtroppo sempre in crescita

Il punto, legale e non, sul cyberbullismo, purtroppo sempre in crescita

 

Il punto, legale e non, sul cyberbullismo, purtroppo sempre in crescita

La tumultuosa diffusione dei social network, che costituisce uno dei più eclatanti effetti dell’impatto di internet sulle relazioni interpersonali, rende tutti noi utenti telematici più vulnerabili e potenzialmente soggetti ad abusi e lesioni dei nostri diritti, finanche di quelli fondamentali. In tale contesto trova terreno fertile il cosiddetto cyberbullismo (o bullismo online), che consiste in un complesso di episodi di violenza ed azioni vessatorie perpetrate da una o più persone nei confronti di un altro soggetto attraverso la rete internet.

Il cyberbullismo altro non è che una forma di bullismo attuato mediante i nuovi mezzi di comunicazione: ciò che lo contraddistingue dal bullismo tradizionale è l’amplificazione devastante del messaggio per effetto delle moderne tecnologie utilizzate. Bisogna infatti evidenziare che il forte impatto innovativo dei social network non risiede unicamente nella grande facilità e velocità di circolazione e diffusione dei dati in rete, ma anche – e soprattutto -nella tendenza alla loro condivisione, potenzialmente in ogni parte del mondo, con altri utenti e soggetti. Attraverso la rete, infatti, informazioni e dati vengono “caricati” (upload) e “scaricati” (download) dall’utente sul proprio account e messi a disposizione di altri utenti, che a loro volta possono condividerli con altri soggetti creando un effetto a cascata irrefrenabile.

I social network consentono, insomma,  una forte possibilità di interazione all’interno del cosiddetto cyberspace, che è un mondo virtuale privo di confini spaziali e temporali, e garantiscono l’illusorio anonimato del molestatore, dando agli utenti del web la falsa illusione di poter compiere impunemente quegli atti illeciti che nella vita reale (probabilmente) non avrebbero posto in essere.

Passando alle varie tipologie di cyberbullismo, i giuristi anglofoni sono soliti distinguere il cyberbullismo vero e proprio, che avviene tra minorenni, dal cyberharassment (“cybermolestia”) che avviene tra adulti o tra un adulto ed un minorenne. Vi sono poi l’e-bullying diretto, che consiste nell’uso di Internet per commettere atti illeciti direttamente nei confronti della vittima e l’e-bullying indiretto che consiste nel diffondere messaggi dannosi o calunnie sul conto della vittima.
Si distingue infine tra cyberbullismo proprio, consistente nell’atto illecito commesso su internet e successivamente diffuso e cyberbullismo improprio, rappresentato da azioni vessatorie compiute nel mondo reale, solitamente filmate, immesse in rete e diffuse nel mondo virtuale.

Quelle sopra richiamate rappresentano solo alcune macro categorie individuate per inquadrare il fenomeno, in quanto poi, nella realtà, esistono una molteplicità di sottocategorie che prendono in considerazione elementi ancora più specifici del cyberbullismo (per esempio la categoria della “denigrazione”, caratterizzata da frasi offensive rivolte ad una persona per danneggiarne la reputazione via internet, la “sostituzione di persona”, che consiste nel farsi passare per un’altra persona al fine di pubblicare frasi o testi reprensibili, “inganno”, ossia ottenere la fiducia di qualcuno per poi diffondere nella rete le informazioni confidate, “doxing”, che si attua attraverso la divulgazione su internet di dati personali e sensibili, etc.)

Per quanto riguarda i soggetti coinvolti nel cyberbullissmo, ad un primo esame si potrebbe ritenere che gli stessi siano semplicemente due: la vittima che subisce l’atto persecutorio ed il prevaricatore che compie l’atto. C’è tuttavia un terzo soggetto che riveste un ruolo estremamente importante nelle dinamiche del fenomeno: gli osservatori che assistono, in maniera più o meno passiva, alla performance.

In base alle reazioni di tali spettatori rispetto agli atti di prevaricazione posti in essere, si distinguono poi tre diverse categorie:
– i sostenitori del bullo, coloro, cioè, che incitano il prevaricatore, che ridono quando quest’ultimo umilia la/e vittima/e o che semplicemente osservano silenziosi;
– i difensori della vittima, solitamente di sesso femminile, che proteggono la vittima;
– la maggioranza silenziosa, definita anche outsider, che rimane indifferente agli atti prevaricatori, non reagisce di fronte ad essi e cerca anzi di rimanere estranea alla situazione. È forse l’atteggiamento più pericoloso, perché tende a creare una forma di omertà verso il bullismo, con l’unica conseguenza di legittimare il comportamento del bullo e l’espandersi del fenomeno.

Appare a questo punto opportuno esaminare le risposte fornite dal nostro ordinamento ai casi in cui si verificano episodi di cyberbullismo.

In via preliminare va osservato che né il sistema giuridico italiano né la giurisprudenza in materia offrono una definizione del bullismo, che non viene configurato come fattispecie avente autonoma rilevanza giuridica. Il fatto che il bullismo non sia previsto e sanzionato come figura autonoma dall’ordinamento giuridico non significa tuttavia che chi commette prevaricazioni non possa essere punito e chi le subisce non possa essere tutelato: il cyberbullismo può infatti configurare fattispecie penalmente perseguibili.

Vengono infatti in rilievo le violazioni della riservatezza (con la necessaria distinzione tra violazioni della privacy in senso stretto e violazione della cosiddetta riservatezza informativa, categoria più estesa della prima); i reati che riguardano la produzione, diffusione e fruizione di materiale pedopornografico o, comunque, prodromici ad abusi sessuali ed allo sfruttamento di minori; le violazioni dei diritti d’autore sulle opere protette; i reati aventi ad oggetto la manifestazione e diffusione del pensiero, come il reato di diffamazione, perseguibile ai sensi dell’art. 595 c.p.c. e  numerose altre attività illecite che possono realizzarsi tramite i social network.

Molto spesso, infine, il fenomeno del cyberbullismo configura il reato classificato come “atti persecutori” (noto anche come stalking) disciplinato dall’art. 612 bis c.p.: la sovrapposizione tra le condotte classificabili come cyberbullismo e quelle caratterizzanti il reato di stalking è resa ancor più evidente dalla modifica apportata all’art. 612 bis c.p. attraverso l’introduzione nel comma 2° della circostanza aggravate relativa alla commissione del reato attraverso strumenti informatici e telematici. Inoltre, accanto alla responsabilità personale di chi commette atti prevaricatori, esiste anche una responsabilità civilistica dei terzi, che può essere fatta valere dalla vittima di bullismo ed alcune volte di cyberbullismo per il risarcimento dei danni subiti: tale forma di responsabilità è quella disciplinata dal codice civile agli articoli 2047 e 2048.

La prima disposizione disciplina la cosiddetta “culpa in vigilando” dei docenti, che hanno il dovere di vigilare sugli studenti e sono dunque responsabili dei danni causati a terzi dal fatto illecito dei loro allievi, se avviene nel tempo in cui sono sotto la loro vigilanza.

Il docente ha l’obbligo di istruire ed educare il giovane ed ha anche uno specifico obbligo di protezione e sorveglianza, volto ad evitare che l’allievo possa procurarsi da solo danni alla persona (dovere che opera anche nel caso di danni arrecati da un alunno ad un altro).
L’art. 2048 cod. civ., invece, disciplina la cosiddetta “culpa in educando” e prevede che il padre, la madre ed il tutore sono responsabili del fatto illecito commesso dal figlio minore.
I due tipi di responsabilità (dell’amministrazione scolastica e dei genitori) sono concorrenti tra loro e non alternative: il riconoscimento del risarcimento dei danni alle vittime di bullismo da parte di alcune recenti sentenze ha confermato un orientamento che considera le vittime di tali atti illeciti alla stregua delle vittime di reato.

 

(...omissis...)

copia integrale del testo si può trovare al seguente link:

http://www.articolo21.org/2016/10/il-punto-legale-e-non-sul-cyberbullismo-purtroppo-sempre-in-crescita/

(Articolo pubblicato dal CUFRAD sul sito www.alcolnews.it)