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News di Alcologia

Non possiamo salvare le donne che non vogliono salvarsi

Non possiamo salvare le donne che non vogliono salvarsi

Non possiamo salvare le donne che non vogliono salvarsi

Era un giorno di dicembre del 1994 quello in cui entrai alla libreria Feltrinelli di Bologna in cerca della soluzione a un problema che mi toglieva il sonno: un fidanzato psicologicamente (spesso) e fisicamente (molto meno spesso, ma basta una volta, no?) violento che non riuscivo a lasciare. Avevo 21 anni, studiavo all'università e avevo una media altissima che lui, il fidanzato in questione (che di mestiere prendeva a calci un pallone) sdoganava con un "andar bene avrai aperto le gambe al professore per prendere 30". Non era vero, ovviamente, e io mi arrabattavo come potevo per spiegargli che mai, mai avrei fatto una cosa del genere, che avevo studiato e mi ero ampiamente meritata quel voto. "Ma figurati - era la sua risposta - sei troppo stupida".

Quando non ero stupida ero brutta, "talmente brutta che quando la gente ci vede assieme pensa a come faccia uno bello come me a stare con una brutta come te".

Insomma quel giorno entrai da Feltrinelli perché sull'autobus da cui ero appena scesa avevo sentito due ragazze parlare di un libro che si intitolava "Donne che amano troppo" e avevo capito che io potevo proprio essere una di quelle lì: una donna che ama troppo. Anzi (come ho imparato nel tempo) ero una donna che amava male, che aveva così poco amore per se stessa da comprendere e giustificare il poco amore che riceveva. Ero una ragazzina che pensava molto e leggeva tanto, attività che venivano licenziate da quel vecchio fidanzato - con cui sono stata per i 6 anni più lunghi della mia vita - come dannose perché "a forza di leggere e di pensare finirai ricoverata in un manicomio perché diventerai matta". Ma io continuavo a leggere e a pensare, terrorizzata dal fatto che un giorno qualcuno potesse rinchiudermi e buttare via la chiave. Inutile dire che quel libro non risolse il problema che avevo, ma mi permise di capire che quello che vivevo io non era straordinario, era anzi molto più comune di quanto pensassi e, soprattutto aveva un nome: dipendenza affettiva. Che già a me la parola "dipendenza" metteva ansia, figurarsi il panico in cui finii scoprendo che ero dipendente da una relazione malata.

Ci volle ancora un anno perché riuscissi a liberarmi da quella relazione perché il mio fidanzato mi aveva convinta che se lo avessi lasciato, mai più nessun uomo mi avrebbe voluta e sarei morta vecchia e sola come un cane... ammesso che fossi arrivata alla vecchiaia perché se avessi osato lasciarlo lui mi avrebbe ammazzata, o almeno questo mi prometteva.

Invece quando lo lasciai pianse tutte le lacrime che aveva e mi scongiurò per mesi di tornare sui miei passi promettendomi che sarebbe cambiato. Il cielo sa dove trovai la forza di resistere alle sue lacrime e alle sue preghiere.

Dopo quella relazione ne ho avute altre e tra queste ancora una che, a distanza di anni, riproponeva, anche se in termini diversi, quello stesso meccanismo. Me ne accorsi il giorno in cui due amiche, più grandi e sagge di me, mi dissero che non sarebbero più venute a trovarmi a casa se ci fosse stato il mio compagno: "Perché?", chiesi io. "Perché ti umilia davanti a noi e noi non possiamo vederti abbassare la testa e stare zitta davanti ai suoi insulti". Fu una mazzata indimenticabile perché io non avevo di me l'immagine di una donna che si fa umiliare. Io avevo di me l'immagine di una donna autonoma e indipendente, di una femmina coi "controcogl..". Invece ero debole, debole al punto di accettare di venire umiliata.

Cercai aiuto: ero così spaventata da quello che avevo scoperto di me stessa, a 35 anni, che capii che da sola non ce l'avrei fatta.

Cercai aiuto e lo trovai, ma il primo passo fu il mio. Così come ogni primo passo compiuto verso l'uscita da una relazione violenta e malsana deve essere fatto dalla donna che la subisce. Perché "non si può aiutare chi non vuole essere aiutato", nemmeno se il bisogno di aiuto è così evidente da spezzare il cuore. Tendere una mano a una donna abusata è fondamentale, questo è indiscutibile, ma lo è altrettanto accettare che quella mano non sempre verrà presa. Perché la dipendenza affettiva è una malattia e nessuno può costringere un malato (adulto e capace di intendere e di volere) a curarsi. La dipendenza affettiva non è diversa da ogni altra forma di dipendenza: che sia dai videopoker o dall'eroina, o dalla vodka.

(...omissis...)

copia integrale del testo si può trovare al seguente link: http://www.huffingtonpost.it/deborah-dirani/non-possiamo-salvare-le-donne-che-non-vogliono-salvarsi_a_23291388/

(Articolo pubblicato dal CUFRAD sul sito www.alcolnews.it)