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News di Alcologia

Il muro

Il muro

Il muro

 

 

In questi giorni mi sono trovata a riflettere su quanto sia stato diffi­cile per me “giungere a credere!”, abbattere quel muro di cui non riusci­vo neppure a valutare l’altezza. Adesso so con certezza e posso serena­mente ammettere che il mio rifiuto di un Potere Superiore non era altro che un muro di superbia (quel muro così alto da non riuscire a valutar­ne l’altezza...) che mi escludeva da ogni contatto con l’esterno e che mi toglieva ogni via d’uscita.

Tranquillamente seduta alla mia scrivania mi sono chiesta se riu­scirò mai a individuare come e quando il muro ha cominciato a creparsi prima e franare poi.

Proviamo a scrivere quello che mi viene in mente, poi si vedrà.

Era un caldo mese di maggio dell’ottantasei e io dovevo sottopormi a un intervento chirurgico abbastanza delicato che mi spaventava e non mi dava garanzie di guarigione.

I miei undici mesi di sobrietà non mi proteggevano abbastanza,

altri eventi mi avevano già duramente provata e la sobrietà emotiva... una meta irraggiungibile.

Mi sentivo sperduta, era difficile affrontare le difficoltà senza alcol e non sapevo a chi, a che cosa aggrapparmi. Sì, era veramente grande quell’ostacolo: “Siamo giunti a credere...”. Credere in chi? Credere in che cosa? Nel Gruppo? Mi ero affidata al Gruppo, chiedendogli umil­mente aiuto, credevo in lui, ma... Un dubbio mi era entrato dentro ormai da tempo e lavorava quasi a mia insaputa mettendomi ancora di più allo scoperto, rendendomi se possibile ancora più insicura. Va bene il Gruppo con il suo caldo e rassicurante abbraccio, ma prima? Prima di conoscerlo, chi mi aveva spinto verso di lui? Che cosa? “La mia voglia di vivere” rispondevo, ben sapendo ormai che quelle parole celavano qual­cosa di grande, troppo grande per parole così umane.

Ritornando a quel caldo mese di maggio, partii per una città del Nord (fra l’altro, proprio in questa città, dove avevo vissuto anni prima, avevo avuto dei presentimenti vaghi sul mio alcolismo, ma li avevo igno­rati: perché l’alcol ti avverte prima di prenderti, solo che non te ne accorgi) dove rimasi in ospedale quindici giorni, sola con le mie paure e i miei punti interrogativi. L’ambiente non era di quelli che ti tranquilliz­zano; come uscivo dal mio reparto, per fumare qualche sigaretta di nascosto, mi trovavo nel caos di lunghissimi corridoi più trafficati del “corso” della mia piccola città. Pazienti in vestaglia, poliziotti, camici bianchi, famiglie in visita, giornalai mi passavano vicino, mi urtavano e non c’era neppure una faccia nota fra tante. A dispetto di tutto mi pren­deva una strana, rassicurante tranquillità, perché?

Passavano i giorni e i perché s’infittivano; perché era mio marito a tranquillizzarsi dopo avere parlato al telefono? Perché mio figlio, il mio bambino, aveva voglia di scherzare e mi diceva: “Mamma, mi fai ridere, chiamami ancora ? Perché l’ansia era scomparsa e mi sentivo così sere­na? Perché le due ore passate in un corridoio davanti alla sala operatoria furono le più quiete che ricordassi da anni? Solamente il frutto della prea­nestesia? E perché infme, continuavo a ripetermi, o a ripetere a qualcuno

non so: “Fate voi, io non posso più fare niente”. A chi mi affidavo? Perché, perché... Fragile, fragilissima, senza quel muro intorno che lentamente si

era sgretolato; quell’interrogativo ossessionante: “Chi mi ha fatto varcare quella soglia?” aveva lavorato dentro di me perché avevo tenuto la mente aperta e le orecchie pronte ad ascoltare nuove voci, nuove emozioni. Dall’intervento mi svegliai bene, dolcemente, con grande tranquillità e ho ancora un ricordo molto piacevole di quelle ore.

Rapidamente pensai che dovevo ringraziare qualcuno ma non era solo il chirurgo e allontanai bruscamente quell’incomodo pensiero impertinente. Passarono alcune settimane quando, quasi all’improvviso, mi resi conto che credevo. Provavo la sensazione rassicurante e del tutto nuova per me, di non essere un granello di sabbia inutile e senza scopo, un granellino insieme a miliardi di granellini come me.

Per un po’ di tempo ho pensato si trattasse del normale senso di sollievo che prende in certe situazioni quando tutto va a finire bene. Tuttavia con molta onestà (fatto nuovo anche questa onestà verso me stessa) dovetti ammettere che in passato altre situazioni si erano poi svolte nel migliore dei modi, ma che io non mi ero mai sentita “così”.

Allora, ascoltandomi libera da preconcetti, ho scoperto qualcosa di me riguardo a questa “faccenda di Dio”: per esempio che Egli era già dentro di me (la mia voglia di vivere a tutti i costi) ma che non sentivo perché Io ero Dio. Potenza della superbia intollerante! Io vivevo sempli­cemente volendo ignorare questo Dio dentro di me, cieca e sorda ai suoi segnali e provando un sentimento fra l’invidia e il disprezzo per chi era così debole da averne bisogno.

Quante volte, però, negli anni di totale dipendenza dall’alcol, quan­do mi svegliavo prestissimo al mattino, fradicia di sudore gelido, con il vuoto nella testa e nel cuore, con l’orrore di una nuova giornata da per­correre, tutta, ora per ora; quando il tremore delle mani mi impediva di scrivere, quando la nausea mi soffocava, cantavo fra le lacrime e senza voce: “Vedrai, vedrai.., un giorno cambierà. Non so dirti come o quando ma vedrai che cambierà”. A chi mi rivolgevo, a quella G., dalla faccia gon­fia e stravolta che mi spaventava dallo specchio o a quell’altra G., bambi­na fragile e impaurita che avevo sempre nascosto dentro di me, che non voleva morire e che Dio, in fondo, non aveva abbandonato mai?

Non so, non capisco se questo breve viaggio a ritroso mi abbia

chiarito le idee, in fondo i miracoli sono tutti un po’ incomprensibili. Comunque non mi interessa saperne di più; con certezza ora so che mi sveglio di buon umore dopo essermi addormentata a volte stanca, a volte no, a volte soddisfatta, a volte no, a volte un po’ triste, a volte no; però sempre serena, consapevole di non essere sola, sicura nell’affidar­mi al mio tanto sofferto Potere Superiore.

Spesso non riesco nemmeno a terminare l’unica preghiera che so:

Signore, concedimi la serenità di accettare...”, ma sono certa che Dio mi perdonerà, perché mi ama.

G. - Toscana (1992)