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Psicopatologia da web: Intervista al Dottor Federico Tonioni

Psicopatologia da web: Intervista al Dottor Federico Tonioni

Psicopatologia da web: Intervista al Dottor Federico Tonioni

 

di Anna Lisa Maugeri

Dipendenza da web, iper-connessione e giovani: quanto ne sappiamo? Sono diversi i luoghi comuni da sfatare per comprendere cosa c’è davvero alla base delle nuove dipendenze, fra tecnologie e giochi online, un mondo in continuo mutamento che spaventa e preoccupa gli adulti, rendendo complicato il rapporto genitori-figli. Ma è proprio tutta colpa del web?

Ne parliamo con il Dottor Federico Tonioni, psichiatra e psicoterapeuta che ha fondato e dirige il primo Ambulatorio in Italia per la Dipendenza da Internet, diventato oggi il Centro Pediatrico Interdipartimentale per la Psicopatologia da Web, presso la Fondazione Policlinico Gemelli di Roma.

Dottor Federico Tonioni, quando e come è nata l’esigenza di creare un centro per il trattamento delle dipendenze da web?

R: Il centro nasce nel 2009 da un mio spunto, insieme alle persone che lavorano con me. La necessità di creare un centro per il trattamento delle dipendenze da web è arrivata quando ci siamo resi conto che c’era stato un cambiamento nel modo di pensare dei ragazzi. Avevamo notato che i nostri modelli (lavorando con una formazione psicoanalitica) non funzionavano più come prima.

Sappiamo che la mente si forma in relazione con gli altri sin da quando siamo piccoli, quindi è stato facile pensare che internet, che già impazzava da un decennio nelle nostre vite, avesse in qualche modo modificato il modo di pensare e di comunicare. Siamo partiti con un’idea di patologia, ma abbiamo capito subito quanto, in realtà, c’è di evolutivo nelle nuove generazioni e nei nuovi profili cognitivi dei ragazzi, a partire dall’iper-connessione, che in adolescenza non condanniamo assolutamente.

Cos’è la dipendenza da web e tecnologie?

R: Prima di tutto, la dipendenza è un tipo di diagnosi che, come tutte le diagnosi, male si applica sulla mente adolescenziale. La diagnosi di dipendenza patologica, che nasconde sempre un’angoscia più profonda, è una di quelle diagnosi che maggiormente si applica male.

La mente dell’adolescente è come creta fusa: è qualcosa che ha il vincolo di diventare un’altra cosa, di trasformarsi. I ragazzi, attraverso ciò che fanno, cercano di mantenere l’unico equilibrio possibile per acquisire un’identità e lo devono fare mantenendo una distanza di sicurezza dalle figure genitoriali; questo manda in crisi le figure genitoriali.

Fare una diagnosi sugli adolescenti vorrebbe dire fare una diagnosi a settimana, perché è tutto in mutamento. Noi preferiamo parlare di casi di abuso.

Pensiamo, quindi, che la psicopatologia adolescenziale non sia costituita da malattie, ma piuttosto da sintomi mobili, tutti destinati a mantenere l’unico equilibrio possibile, anche, a volte, con determinate difficoltà.

Distinguiamo, dunque, fra abuso e dipendenza. Ad esempio, anche nel caso di abuso di alcol, un ragazzo che beve troppo il sabato sera può diventare un alcolista, o un cocainomane, o un paranoico, oppure può diventare una persona armoniosa senza aver mai conosciuto né uno psichiatra, né uno psicologo, né un tecnico del settore.

Nessun adolescente vuole morire o distruggersi, tutti cercano di guadare un fiume con la corrente forte, ma non è possibile pensare di poter arrivare all’altra sponda del fiume senza essersi bagnati, senza aver avuto delle difficoltà, senza aver avuto anche la paura di morire. Per cui, noi preferiamo il concetto di psicopatologia a quello di dipendenza.

In quali casi si può parlare, dunque, di psicopatologia web-mediata?

R:Noi non interveniamo mai per questioni legate all’iper-connessione degli adolescenti, perché pensiamo che l’iper-connessione sia proprio un diritto degli adolescenti. Noi interveniamo solo quando c’è dolore mentale, ovvero in presenza di ritiro sociale. In Giappone questi ragazzi sono chiamati Hikikomori. Alcuni ragazzi ad un certo punto smettono di andare a scuola; quell’energia fantastica che possiedono e che li porta fuori di casa per andare incontro all’esperienza, la usano per trattenersi dentro casa, ma non per la dipendenza da giochetti o cose del genere, ma piuttosto perché questi ragazzi arrivano ad affrontare l’adolescenza senza energie, con le pile scariche. E’ un periodo difficile, che noi abbiamo dimenticato, poiché si tende sempre a rimuovere la parte dolorosa della nostra adolescenza. Non è solo un periodo di contrasti, ma ha degli aspetti molto duri, a partire dalla solitudine interiore, ecco perché gli adolescenti tendono a stare sempre insieme.

Qual è l’età tipica di questa patologia e quali sono i sintomi ai quali prestare attenzione?

R: L’età è fra i 12 e i 14 anni, soprattutto nel passaggio fra scuole medie e scuole superiori. I sintomi sono: un disinvestimento dal corpo, da tutte le attività fisiche, una sensazione di solitudine. Sono ragazzi pieni di rabbia, con una bassissima stima di sé. Giocano ai giochi sparatutto dalla mattina alla sera, anche venti ore al giorno, non perché sono dipendenti da quei giochi, ma perché sono pieni di rabbia. Il problema fondamentale non è la dipendenza da web. I prodromi sono molto più antichi.

Cosa c’è, quindi, alla base di questa patologia?

R: I motivi sono veramente tanti, ma alla base ci sono sempre motivi affettivi. La rabbia della quale parlavamo, è una rabbia accumulata molto prima che conoscessero il primo tablet e dovuta a questioni affettive. Nelle relazioni con loro ce ne accorgiamo quando questa rabbia esce fuori, quando viene, poi, detonata dai giochi sparatutto. Sono ragazzi che sono stati trattenuti dall’esperienza sin da piccoli, dentro un ambiente troppo ansioso.

Pensiamo ad un bambino che inizia a camminare per la prima volta: ci sono mamme che accompagnano con un sorriso il figlio che compie i primi passi e mamme che vivono questa prima volta con un po’ di ansia.

Il mondo del bambino è fatto di prime volte e, nel fare qualcosa per la prima volta, il bambino cerca lo sguardo del genitore. La bontà di quello che ha fatto sta nell’ansia o nella meraviglia che legge negli occhi del genitore: grazie alla reazione di meraviglia il bambino cresce, l’ansia del genitore, invece, lo lascia perplesso, lo blocca.

Un ambiente troppo ansioso fa sì che l’energia che non è diventata esperienza, perché trattenuta, diventi rabbia. L’energia trattenuta diventa rabbia e si accumula in un ammasso di cose, una sorta di peso dentro, un peso che i bambini devono gestire dalla mattina alla sera.

C’è un periodo ben preciso biologicamente anche per vivere l’adolescenza, che non si deve protrarre nel tempo. L’adolescenza è un treno che passa una volta sola, i ragazzi lo sanno e ci vogliono salire.

“L’amore speciale” di una mamma che non manda la figlia in discoteca dicendo: “anche se le tue amiche vanno, mamma non ti manda in discoteca perché non è come le altre mamme, alle quali non gliene frega niente; mamma ti vuole così tanto bene che ti protegge e non ti ci manda”. Ecco, questa è una fregatura, non “super amore”. Non possiamo chiedere ai ragazzi o ai bambini di prendersi cura di noi, perché le conseguenze saranno un prezzo da pagare dopo.

Quali sono le possibili ripercussioni della rabbia accumulata nei ragazzi?

R: Questa rabbia può prendere tre strade, e solitamente le prende tutte e tre. La prima strada può prendere due direzioni: una è quella che va verso l’apparato cognitivo e può manifestarsi o con i disturbi dell’apprendimento, ed ecco che qui si hanno le varie diagnosi di dislessia, disgrafia, discalculia o di iperattività, che spesso non è altro che vitalità, a parte i casi in cui i disturbi sono sostenuti da una base biologica disfunzionale; l’altra direzione va verso la forma opposta, con l’iper-razionalità, come nei nerd che studiano e basta.

La seconda strada indirizza questa rabbia verso il corpo e si manifesta in una “ammalabilità” maggiore rispetto agli altri bambini. Questi bambini si ammalano sempre prima di occasioni di massima socialità, la festa di Halloween, una cena di classe, la gita scolastica … E sentirà le mamme dire: “poverino, ci teneva tanto ma gli è venuta la febbre”. Una mamma internamente lo sa, lo sente, ma si sente anche in colpa, e i sensi di colpa inconsci sono la distanza più pericolosa che ci separa dai figli.

Una mamma che ha questo tipo di difficoltà ovviamente beneficia di un neuropsichiatra infantile che un po’ impulsivamente, diciamo così, dà una diagnosi di disturbi dell’apprendimento al figlio. Aggiungiamo a queste “diagnosi impulsive” una scuola obiettivamente medievale che ancora obbliga i bambini ad imparare le poesie a memoria quando nessun genitore oggi conosce a memoria neanche il numero di telefono del figlio, oppure una scuola che insegna il latino quando oggi servirebbe ai ragazzi molto di più imparare ad usare Excel, o una lezione di Ecologia, o di musica e sensorialità, invece di far comprare ancora oggi il flauto per insegnargli a suonare Fra Martino campanaro, ma a che cosa serve non si sa!

La terza strada che la rabbia prende, quando i bambini possono permetterselo, è quella dei giochi sparatutto, ovvero l’idea di sfogarsi facendo fuori una serie di avversari nel gioco. Anche in questo caso noi adulti siamo riusciti ad affermare che giochi come Fortnite insegnano ai ragazzi a fare gli stupri, che neanche ci sono nel videogioco, e a vendere la droga. I ragazzini ridono al sentirci dire queste cose perché sono molto più avanti di quanto pensiamo.

La cosa che ha più traumatizzato mia figlia più piccola non è stato certo Fortnite, ma vedere al TG1 delle 13 un bambino in Palestina ucciso da una bomba con il padre che strillava; è lì che lei mi ha chiesto “papà ma perché uccidono i bambini?”. Quella è una cosa alla quale non sai dare risposta. È in quel momento che ho visto negli occhi di mia figlia lo sgomento di qualcosa alla quale lei non riusciva a dare un senso.

Se si ricorda l’allarme della Balena blu, la Blue Whale Challange, il gioco dove i bambini, si diceva, erano spinti al suicidio. Pensiamo quanto si deve sentire solo un bambino per fare un gesto autolesivo perché glielo ha detto qualcuno dalla Lituania. Per conoscere le ragioni, bisogna conoscere i bambini e ancora prima conoscere le loro famiglie. Sono due cose diverse mettere al mondo un figlio e dargli uno spazio per crescere, è una cosa difficile ma da fare con un po’ di umiltà.

Quindi, siamo un po’ noi adulti ad usare l’alibi di internet e dell’uso delle tecnologie da parte degli adolescenti, ma in realtà il problema sta nel nostro modo di relazionarci con i nostri figli?

R:Dal mio punto di vista, non c’è ombra di dubbio. Internet è solo una mediazione. I bambini vorrebbero usare il tablet con i genitori, se solo i genitori fossero disponibili. Il problema è che noi genitori non condividiamo quasi più nulla con i figli quando sono piccolini, piuttosto il tablet lo utilizziamo come babysitter. I genitori utilizzano queste tecnologie come strumenti di sostituzione, e in questo senso sono formidabili, infatti. Tutti lo facciamo, ad esempio, durante i lunghi viaggi, quando distribuiamo i tablet ai piccoli, sembra di viaggiare da soli.

Poi, però, quando i figli diventano adolescenti, pretendiamo di condividere questi strumenti per controllarli. Molti genitori si allarmano e non danno il cellulare ai figli, come fosse una droga, dando così un messaggio altrettanto negativo. Il cellulare non è una droga, ma è uno strumento che ha cambiato il modo di pensare e di comunicare dei bambini. Gli adolescenti di oggi sono formidabili dal mio punto di vista, maturi, basterebbe che avessimo la pazienza di ascoltarli.

C’è una correlazione tra iper-connessione e cyber-bullismo?

R: Nessun bambino nasce vittima o bullo. Il primo bullo è il genitore assente. Bullizziamo i nostri figli ogni volta che ci sentiamo traditi quando deludono le nostre aspettative, tutte le volte che ci arrabbiamo con loro, tutte le volte che facciamo muro contro muro, che diamo regole solo per ridurli all’obbedienza. Tutte le volte che io e lei nella vita abbiamo obbedito, abbiamo accumulato rabbia e questo non ci ha aiutato a crescere.

Le regole vanno date per innescare trattative e in queste trattative non deve esserci uno che sopraffà l’altro. I ragazzi hanno bisogno di fare una trattativa con i genitori e sentirsi competenti a farle.

Le regole hanno lo scopo di fare acquisire il senso di limite, che nella vita serve, ma mai per vincere sul figlio e ridurlo all’obbedienza. Ancora oggi siamo in grado di dire e sentiamo dire “se non finisci tutta la pappa non ti alzi da tavola”, che sono frasi deliranti. Creiamo conflitti del tutto inutili. Io penso che i bambini non debbano fare fatica, a partire dallo zaino che portano in spalla e che oggi è diventato un trolley, altro che scuola digitale!

Si pensa ancora che facendo fatica si cresca di più. Non è affatto così. Si cresce quando ci si sente amati, non se si fa fatica. E questo discorso vale anche per lo studio e per i compiti a casa. I bambini si sentono amati, non quando glielo diciamo, ma quando ci mettiamo nei loro panni; quando sbagliamo nei loro confronti dobbiamo essere capaci di chiedere scusa, e difficilmente sappiamo farlo.

Il bullismo va anche un pochino razionalizzato, perché non si tratta di essere aggrediti, anche se in modo reiterato, ma è una vera esperienza persecutoria. Un bimbo è vittima ancor prima di incontrare un primo bullo. Nel senso che c’è una predisposizione nel bullismo vero, quello autolesivo. Non dobbiamo scambiare per bullismo qualsiasi presa in giro o qualsiasi esperienza di esclusione.

(...omissis...)

copia integrale del testo si può trovare al seguente link: https://dailyworker.it/psicopatologia-da-web-intervista-al-dottor-federico-tonioni/


(Articolo pubblicato dal CUFRAD sul sito www.cufrad.it)